Donne di Mafia
La parola “mafia” riporta subito alla nostra mente l’immagine di un’organizzazione criminale
formata da uomini. Contrariamente a quanto siamo portati a pensare, le donne mafiose esistono
e il loro ruolo è rimasto a lungo in secondo piano e questo a causa di una rappresentazione
sociale diffusa che in passato offriva un ritratto delle figure femminili fuorviante: quello di
prigioniere di modelli familiari tradizionali, in ruoli passivi e di sudditanza. La devianza femminile
è stata per lungo tempo invisibile e le donne sono state percepite come soggetti incapaci di
commettere reati autonomamente, in ragione della forte subordinazione cui erano sottoposte
all’interno del nucleo familiare. Questo pregiudizio si è riflesso anche nei procedimenti giudiziari,
che spesso assolvevano le donne perché ritenute dai giudici incapaci di delinquere.
Le donne possiedono numerosi compiti e funzioni all’interno dell’organizzazione criminale, sia
attivi che passivi.
Tra le funzioni passive che svolge la donna mafiosa vi è l’essere garante delle reputazione
maschile. La donna deve mantenere la verginità prima delle nozze e successivamente la
castità. Il pudore femminile rappresenta la via per mantenere intatto l’onore maschile.
Un’altra funziona passiva della donna è quella di essere merce di scambio nelle politiche
matrimoniali. Le alleanze di sangue divengono fondamentali per la sopravvivenza di un clan e
per allargare la rete di fiducia tra famiglie mafiose che condividono gli stessi valori e finalità
criminali, diminuendo le possibilità di faide.
La principale funzione attiva svolta dalla donna all’interno della struttura criminale è quella di
trasmettere i valori criminali, poiché lo scopo della famiglia mafiosa è quello di mantenere il
processo educativo all’interno delle mura domestiche per evitare contaminazioni esterne. I
principali dis-valori sono circa l’omertà, la vendetta, la differenza di genere e il disprezzo per
l’autorità pubblica. Ai figli si insegna l’agire criminale soprattutto durante la fase della
socializzazione primaria; il bambino acquisisce quindi il modello comportamentale mafioso
attraverso l’osservazione e la partecipazione ad azioni criminali.
La differenza di genere ricopre un ruolo centrale: al figlio si insegna l’agire violento vero e
proprio, alla figlia invece si impartisce un’educazione basata sulla subordinazione alla figura
maschile.
Un’altra funzione attiva che svolge la donna è l’incitamento alla vendetta. La vendetta è un atto
di riparazione al torto subito e nella fattispecie mafiosa è una vera e propria esigenza: non
vendicare l’onore è un segno di debolezza che provoca un forte sentimento di vergogna.
È possibile parlare di una “pedagogia della vendetta”, termine usato dal sociologo Renate
Siebert, per indicare l’incitamento nei confronti dei figli a vendicare l’onore del padre ucciso. Al
concetto di vendetta sono collegati quello di onore e vergogna. La vendetta ha lo scopo
principale di ristabilire la pace del morto e dei superstiti. La strategia delle donne è quella di far
leva sul sentimento di vergogna che una mancata vendetta susciterebbe nei propri compagni e
nelle rispettive famiglie di appartenenza. È la donna a tenere una sorta di “calendarizzazione”
dell’atto vendicativo che, assicurando la restituzione dell’onore nella ricorrenza dell’offesa,
rappresenta una sorta di rito in memoria del morto.
Tante sono le vicende che lo dimostrano. A tal proposito, la storia di una donna, proveniente da
Drapia, che conservò la giacca sporca di sangue, portata dal marito quando venne ucciso, allo
scopo di farla indossare al figlio che, una volta cresciuto, avrebbe avuto il dovere di vendicare il
padre, uccidendo il suo assassino.
Lo scrittore siciliano Leonarco Sciascia sollevò critiche molto dure nei confronti delle donne di
mafia, ritenendole addirittura peggiori degli uomini, perché avvelenando le menti dei figli,
vincolano la coscienza che essi hanno del valore dell’atto violento.
La donna possiede un grande ruolo criminale che si concretizza nel traffico di sostanze
stupefacenti. Spesso viene arruolata come corriere e spacciatrice: potendo fingere una
gravidanza è più facile nascondere la droga e inoltre per il solo fatto di essere donna è meno
controllata dalle autorità rispetto all’uomo, ritenuto più pericoloso nell’immaginario collettivo.
Infine, le donne possono essere coinvolte direttamente nella gestione del potere, che si verifica
soprattutto quando la figura maschile è assente. Nelle vesti di messaggere, le donne
trasportano le cosiddette “ambasciate”, messaggi orali o scritti, dall’esterno al carcere, oppure
da un luogo di latitanza a un altro. È alle donne che viene dato il delicato compito di
messaggere perché insospettabili, ma soprattutto perché fidate.
Inoltre le donne possono anche prendere parte a pratiche estorsive della riscossione, nella
gestione della contabilità degli “stipendi” da dare ai picciotti e nella ricerca di contatti per
l’ingerenza di appalti. A ben vedere le pratiche estorsive sono adatte al mondo femminile in
quando, come evidenzia Ombretta Ingrascì, la donna non deve esercitare la violenza ma solo
intimidire l’estorto, minacciandolo di un eventuale ritorsione maschile in caso di mancato
pagamento.
Nonostante l’organizzazione mafiosa sia e continui ad essere fortemente maschilista, si
potrebbe definire l’avanzamento della posizione femminile come una pseudo-emancipazione,
che serve come chiave di lettura per analizzare una figura di donna contraddittoria e ambigua
che da una parte avanza e dall’altra, in quanto controllata e sottomessa alla volontà degli
uomini da cui dipende completamente, mostra arretratezza: una donna che sembra emancipata
nella sfera dell’apparenza, mentre è succube nella sfera più intima. La mafia teme la vera
emancipazione perché significa avere un ruolo alla pari con l’altra metà della società nei luoghi
e nei momenti in cui si prendono decisioni che vanno nel senso della crescita civile e dei
benessere di tutti, perché la vera emancipazione porta all’indipendenza psicologica ed emotiva,
liberandosi dai valori negativi imposti dal dominio mafioso.
Dott.ssa Sofia Gibelli
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