Come può una persona essenzialmente buona, considerata normale, trasformarsi in un mostro capace di atti disumani?
La nostra storia ci fornisce esempi di comportamenti umani malvagi e crudeli come le persecuzioni verso il popolo ebreo durante la seconda guerra mondiale oppure il trattamento che i soldati dell’esercito statunitense ha riservato ai prigionieri iracheni del carcere di Abu Ghraib nel 2003.
Philip Zimbardo, psicologo statunitense, sostiene che l’uomo non è malvagio in sé ma è il contesto in cui si trova ad influenzarne i comportamenti. Egli, riferendosi alla nozione di bene e male e alla creazione del male (Lucifero) dal bene (Dio), dà vita al contesto perfetto per capire come gli esseri umani vengono trasformati da persone buone e normali in attori capaci di fare del male.
Partendo dall’interrogativo “cattivi si nasce o si diventa?” Zimbardo ideò uno degli esperimenti più famosi: l’esperimento della prigione di Stanford conosciuto anche come l’effetto Lucifero.
Zimbardo e i suoi colleghi nel 1971 decisero di riprodurre l’esperienza della vita carceraria all’interno del seminterrato dell’edificio di Psicologia dell’Università di Stanford a Palo Alto in California. Uno dei principali obiettivi era quello di capire quali sarebbero state le conseguenze psicologiche di ricoprire il ruolo di prigioniero o di guardia.
Per la costruzione della prigione si rivolsero ad un gruppo di esperti tra cui un uomo che aveva scontato una pena di 17 anni; la sua testimonianza fu molto importante per capire come realmente si svolgeva la vita carceraria.
I partecipanti vennero reclutati attraverso un annuncio su un giornale locale il quale ebbe molto successo e risposero in 74. I candidati vennero sottoposti a test psicologici in modo di escludere chi aveva problemi psicologici, malattie, precedenti criminali o faceva uso di droghe. I partecipanti definitivi all’esperimento furono 24 studenti i quali vennero divisi, in modo totalmente casuale, in guardie e prigionieri. Zimbardo inscenò anche l’arresto dei prigionieri i quali vennero accusati di furto con scasso e rapina a mano armata, il tutto a loro insaputa: il fine era quello di rendere l’esperimento estremamente realistico.
I prigionieri indossavano una divisa con un numero identificativo che per due settimane avrebbe sostituito il loro nome. Alla caviglia destra avevano legata una catena e avevano una retina in testa per contenere i capelli.
Le guardie utilizzavano degli occhiali specchiati (per non far trasparire le espressioni) e un manganello (fornito dalla polizia). Le guardie non ricevettero nessuno addestramento specifico; potevano fare tutto ciò che ritenessero utile per mantenere l’ordine fra i detenuti.
I ruoli si definirono da subito: le guardie iniziarono ad impartire punizioni sempre più cruente ai detenuti che, a loro volta, mettevano in atto rivolte affinché venissero ascoltati. Dopo sole 36 ore dall’inizio dell’esperimento uno studente, che ormai si riconosceva con il numero identificativo 8612, iniziò a manifestare disturbi emotivi acuti, pensiero disorganizzato e pianto incontrollato, arrivando ad abbandonare l’esperimento.
L’esperimento fu concluso dopo soli 6 giorni dall’inizio perché Zimbardo e la sua equipe si resero conto che tutti i partecipanti all’esperimento non erano più in grado di separare sé stessi dal ruolo che interpretavano.
L’esperimento della prigione di Stanford ebbe molto successo in quanto emersero quelle forze capaci di indurre semplici studenti a mettere in atto azioni e comportamenti che altrimenti non avrebbero mai compiuto nella vita normale. Questo processo in psicologia sociale prende il nome di deindividuazione. Zimbardo precisa che una situazione non determina l’assunzione di un comportamento moralmente riprovevole, ma ne aumenta le probabilità che si verifichi. Ma perché ciò accade? I motivi possono essere due: o fronteggiare una nuova situazione oppure ottenere approvazione sociale dal nuovo contesto.
I processi comportamentali che portano una persona a mettere in atto azioni eticamente scorrette sono:
- La de-umanizzazione della vittima, che viene percepita come senza diritti, senza emozioni, meritevole di persecuzione;
- Rendere se stessi anonimi cambiando, ad esempio, il proprio aspetto o utilizzando l’uniforme;
- La mancanza di responsabilità per le proprie azioni;
- La totale obbedienza all’autorità;
- La conformazione alle norme del gruppo;
- La tolleranza passiva del male attraverso l’indifferenza.
L’esperimento della prigione di Stanford o l’effetto lucifero ha portato Zimbardo a sostenere che il male è l’esercizio del potere. In conclusione il lavoro di Zimbardo può aiutarci a riflettere sul ruolo che il gruppo ha per ogni persona e ai valori a cui si è disposti a rinunciare per amalgamarsi agli altri componenti.
Dott.ssa Martina D’Alba
BIBLIOGRAFIA
- Hewstone, Miles, Wolfgang Stroebe, and Klaus Jonas. Introduzione alla psicologia sociale. Vol. 5. Il mulino, 2015.
- Tucciarelli, R. (2012). Recensione di Ph. Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?. Rivista internazionale di Filosofia e Psicologia, 3(1), 127-129.
SITOGRAFIA
Comments are closed