La famiglia uccide più della mafia: punire giovani vite innocenti

 

Era il 2005 quando L’Eu.r.e.s (ente Europeo delle ricerche economiche e sociali) si trovava nei suoi primi anni di attività di ricerca in omicidi familiari e utilizzò questo slogan (le famiglie uccidono più della mafia), segnando così la comunità tutta per l’audacia e allarme sociale.
Dalle loro statistiche si notificava agli occhi di tutti come gli omicidi consumati in famiglia fossero di più di quelli compiuti dalla criminalità organizzata. Da quel momento si pose un’attenzione particolare verso le dinamiche familiari, alcune delle quali contraddistinte da un tragico epilogo giuridicamente rilevante.
Come le statistiche ci insegnano i crimini nel contesto familiare, nell’ultimo ventennio, hanno assunto un andamento crescente in termini di allarme e preoccupazione.
Nell’anno 2018 si registra una percentuale del 49,5% di omicidi avvenuti in contesto familiare sul totale degli omicidi volontari consumati nello stesso anno; vale a dire: 163 su un totale di 329. Si tratta della percentuale più alta mai registrata in Italia e le statistiche dei primi mesi del 2019 non fanno altro che segnalare una costante crescita di tale percentuale: sarebbe infatti aumentato del 10,3% il numero degli omicidi commessi in contesto familiare.
Negli ultimi anni il totale degli omicidi è in netto calo, così come quello totale delle delittuosità, ciò che invece rimane stabile è il dato su i femminicidi.
La letteratura scientifica dei dati fa emergere quanto repentinamente si vada verso una significativa femminilizzazione della vittimologia nel contesto familiare e proprio il 2020 è stato l’anno in cui l’incidenza della componente femminile, nel totale degli omicidi, è stata del 40,6%. La più alta di sempre. Dei 91 femminicidi totali registrati nel 2020, 81 sono stati commessi nell’ambito del contesto familiare, cioè l’89% del totale.

La scelta di utilizzare così accuratamente i dati statistici non è di certo per annoiare, ma per palesare alla coscienza dei lettori la natura e la mole di questi crimini; il dato statistico racconta e restituisce un’immagine oggettiva della complessità del fenomeno.
Inoltre anche la relazione genitore/figlio si caratterizza per una crescente problematicità con un forte richiamo al tema dei figlicidi, focus di questo approfondimento; si contano infatti 31 figli uccisi dai genitori nel 2018, con una crescita del +47,6% sull’anno precedente. Sempre nel rapporto Eures dal 2002 al 2019 sono avvenuti 473 figlicidi, un dato a cui negli ultimi tre anni si aggiungono almeno un’altra decina di omicidi di questa natura. Alla cronaca italiana, l’ultima violenza che ruba l’infanzia ai minori strappandogli la vita, è arrivata pochi giorni fa con la prematura scomparsa della piccola Elena del Pozzo uccisa proprio da chi, secondo studiosi come Bowlby, Spitz e Harrow, dovrebbe garantire uno sviluppo sicuro e amorevole.
L’attenzione crescente per gli omicidi in famiglia (uxoricidi, parricidi, fratricidi, figlicidi, parenticidi, family mass murder et similia) trova sempre maggiore interesse nei mass Media, ed è per questo che si ritiene indispensabile e necessario un approfondimento scientifico volto a spiegare, non a giustificare o etichettare.
Spesso molti di questi eventi sembrano improvvisi ed inaspettati, commessi da soggetti senza precedenti criminali o devianti. In alcuni casi le risposte ai perché di tali eventi appaiono quasi impossibili vista la maggiore complessità nella relazione complicata vittima-autore.
In Giurisprudenza l’uccisione dei figli viene additata con il termine “figlicidio”, ma in criminologia se ne distinguono ben tre fattispecie in relazione all’età e alla qualità relazionale instaurata fra figlio/vittima e genitore/carnefice:

• Neonaticidio
Il delitto avviene entro le prime 48 ore di vita del bambino e viene denominato in psicologia come aborto tardivo: la “disfatta” dovuta a sentimenti di estraneità e ostilità rispetto al neonato, percepito come parte del proprio corpo di cui si ha il pieno possesso. L’assassinio è spesso preceduto dal diniego della gravidanza, soprattutto nelle donne affette da psicosi e disturbi dissociativi: la gravidanza si nega o si concepisce ad intermittenza con repulsione delle modifiche fisiche ad essa correlate. La letteratura scientifica evidenzia come queste madri descrivano sintomi come la depersonalizzazione, allucinazioni dissociative, amnesia ad intermittenza durante il parto e infiniti sintomi psicotici alla vista del bambino. Fenomenologicamente la madre non si limita a nascondere la gravidanza, ma dichiara di non essersi accorata di essa rimanendo altrettanto stupita dai dolori tipici del parto. Volendo stilare un profilo di queste donne, esse sono generalmente di età giovane e sono affette da psicosi post partum caratterizzato da un vissuto di: autoaccusa, astenia, labilità emotiva, ideazione suicidaria e preoccupazione. Molte autrici di tale reato sono state vittime di abusi sessuali, spesso hanno vissuto in ambienti con alta conflittualità, di ira e in molti casi sono donne che hanno una relazione fortemente disfunzionale con il partner. I gruppi ad alto rischio sono le adolescenti, le non coniugate o di basso livello culturale. A differenza di quanto si possa pensare non incidono lo stato sociale e la razza.

• Infanticidio
Il delitto avviene entro il primo anno di vita del bambino.
A differenza del precedente in cui la relazione con il proprio bambino non viene instaurata, qui è proprio essa il possibile movente, elemento che permette di comprendere e prevenire il fenomeno.

• Figlicidio
Il delitto avviene dal primo anno del bambino in poi, anche in età adulta. È possibile identificare, attraverso il movente, le variabili circa i diversi atteggiamenti delle madri carnefici;
1. Le madri che uccidono un figlio non voluto possono negare con forza la loro responsabilità, attribuendola a terzi. In contesti di suicidio allargato (situazioni di estrema depressione senza possibilità di ricevere aiuto dall’esterno, il suicidio è percepito come un atto riparatore che pone fine ad una sofferenza divenuta insopportabile. In questi casi si ha spesso premeditazione dell’atto e le vittime sono i figli più piccoli, ritenuti meno idonei ad affrontare da soli le presunte avversità della vita) e dopo essere sopravvissute al tentativo di uccidersi, generalmente raccontano con facilità e notevole sofferenza personale il loro progetto omicidiario, specificando i mezzi usati per sopprimere il figlio. (Invece, chi è affetto dalla sindrome di Munchausen per procura, tenderà a negare anche davanti all’evidenza di prove certe).
2. La seconda variabile riguarda i processi psicologici di trasformazione dell’immagine dell’aggressore e della vittima: per difendersi psicologicamente si tende a trasformare l’episodio, se stessi e la vittima in modo non sempre cosciente. La madre cerca di cancellare l’immagine che ha di sè stessa (crudele, spietata vendicativa) in una madre disperata, ferita e sofferente: questa nuova identità le permette di mantenere una sufficiente autostima ed accettazione di sè.
3. L’ultima variabile concerne nell’utilizzare influenze esterne per fini difensivi, ovvero eludere la giustizia e attenuare la pena prevista.
Negli omicidi familiari, quello dei figli, rappresenta sicuramente il reato che più di tutti è in grado di suscitare sgomento e una profonda ansia e riprovazione collettiva. È bene specificare come il crimine non è per nulla appannaggio esclusivo di genitori affetti da psicopatologie, anche se costituiscono la maggior parte i rei giudicati affetti da vizio di mente al momento del fatto.

I dati statistici ci suggeriscono anche come questo fenomeno sia in continuo mutamento: a dispetto degli anni precedenti in cui si vedevano protagoniste le mamme ad uccidere i propri figli, nel 2018 i figlicidi sono stati commessi da 20 padri a fronte di 11 mamme.

A tal proposito sono identificabili moventi del figlicidio comuni sia per i padri che per le madri. Tra le cause troviamo;
• omicidio per pietatis causa: si attua nei confronti di un figlio affetto da una grave malattia. Generalmente viene compiuto da genitori anziani che, sentendo la vita scivolare fra le mani, si preoccupano delle sorti del proprio figlio che rimarrà in vita senza di loro. Hanno timore che la mancanza di una buona rete possa non soddisfare i bisogni speciali di quest’ultimo.
• omicidio per gravi malattie mentali dell’autore come schizofrenia, depressione, psicosi.
• omicidio per obbedienza a una credenza superiore, ad una devozione irrazionale o per pratiche occulte.
• Omicidio conseguente a maltrattamenti con esito fatale e negligenza
• omicidio per spostamento dell’aggressività dal partner al figlio: il marito o la moglie possono uccidere un figlio per “vendetta” nei confronti del partner. Lo possiamo considerare una sorta di Uxoricidio indiretto poiché viene tolto al partner ciò che ha di più prezioso.

Quest’ultima motivazione viene identificata in psicologia come “Sindrome di Medea”, presa in prestito proprio dal mito Greco di Euripide: Medea fugge con Giasone dopo aver rinunciato alla famiglia di origine ma quando quest’ultimo minaccia di abbandonarla per un’altra, la donna uccide i loro due figli allo scopo di vendicarsi del tradimento dell’amato. I figli sono stati uccisi da Medea non solo perché in tal modo si sarebbe interrotta la linea di discendenza di Giasone, ma anche per una visione del tutto possessiva dei propri figli, estromettendo il padre. I figli di Medea diventano un bene materiale su cui manifesta un sentimento di onnipotenza. La madre è colei che gli ha dato la vita e si sente in diritto anche di togliergliela. La spada con cui trafigge i figli rappresenta il fantasma di una madre aggressiva e vendicativa.
Tipicamente femminile, negli ultimi anni è un fenomeno che sempre più caratterizza anche i figlicidi commessi dai padri: “Vi ho punito“. Così si esprime Tullio Brigida al processo, rivolgendosi alla e moglie e ai familiari di lei dopo aver ucciso i loro tre figli. Gli esperti chiariscono come avvenimenti del genere non siano attribuibili ad un raptus ma ad un escalation di odio nei confronti della compagna abbandonica, punendo e affermando la propria visione patriarcale. Perciò, generalmente, arrivano ad uccidere dopo un lungo percorso di rabbia, frustrazione e pianificazione. Se gli autori maschili di reato non si suicidano dopo il delitto, provano un grande senso di sollievo e liberazione. I delitti commessi da una mano maschile si contraddistinguono da quella femminile per una maggiore violenza procurate da armi da fuoco o bianche, uccisione dei fogli più grandi e di più vittime (Family Mass murder, le cosiddette stragi annunciate).
L’evidente sfondo psicopatologico che predomina in certi delitti, suggerisce una massiccia sensibilizzazione in ottica preventiva e non di giudizio e repressione.
Se prudentemente e consapevolmente proiettati verso le dinamiche familiari e l’importanza dei legami affettivi, gli operatori del sociale e delle scienze forensi possono intervenire efficacemente su i prodromi criminosi e sulle caratteristiche legate al vissuto esperenziale, affettivo e socio-relazionale degli autori di reato e delle loro vittime. Come già evidenziato in precedenza, certi atti non sono mai un “fulmine a ciel sereno”.

“Soffro, lo capite che soffro, patimenti che strappano le urla.
Maledetti figli di una madre detestabile, possiate crepare, voi e vostro padre e che questa casa precipiti in rovina…Ahi! Perché il fulmine non mi incenerisce, perché continuo a vivere? Come vorrei lasciare questo mondo odioso, dissolvermi nella morte.”
(Euripide – Medea)

Dott.ssa Alessia De Fusco

Fonti:
Nivoli G.C., in “Medea tra noi. Le madri che uccidono il proprio figlio”, Carocci, 2002
Sintesi del rapporto EURES sugli omicidi in famiglia 2018/20019

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